Nel 2009 il web è stato investito da un dibattito
corposo e controverso sull’immagine della donna nella televisione italiana. A
dare un’eco fondamentale a questo dibattito è stato il documentario realizzato
da Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù, Il corpo delle donne,
che mostra, attraverso un montaggio ragionato, quanto il corpo femminile sia
stato reificato all’interno dei programmi dedicati all’intrattenimento, come
Buona Domenica, in onda su Canale 5.
Lo schermo del potere di Alessandra Gribaldo e
Giovanna Zapperi getta una luce articolata su quel dibattito
contestualizzandolo e ampliandone i contenuti secondo le teorie femministe e
visuali. La prima constatazione che emerge è la disparità fra la
rappresentazione della donna sul piccolo schermo e la realtà delle donne che
vivono al di fuori dello schermo stesso. Disparità che non deve però
trasformarsi in dicotomia, come sembra mostrare il sopramenzionato
documentario, dove forse, notano le autrici, vi è un esagerato accanimento nei
confronti delle donne rifatte in tv contro le donne non rifatte nella realtà.
Come se le prime non fossero donne reali e le seconde lo fossero anche troppo,
“la sottolineatura costante del ritorno all’autenticità del femminile,
all’esigenza di sincerità si adagia sulla convinzione che esista qualcosa come la donna…”. Il rischio quindi è quello di
essenzializzare la donna, di ridurla ad una definizione prestabilita. Criticare
aspramente la tipologia di donna veicolata dalla tv non è la strada giusta da
percorrere. La questione, secondo le autrici, è ben più complessa.
Ed è per questo che occorre aprire la riflessione
sulla “costruzione visiva dell’alterità” al rapporto fra sessismo, razzismo e
omofobia che non sono separabili fra loro. In questo senso, la figura della
donna migrante emerge come paradigmatica nel fornire un immaginario ancora una
volta intriso di stereotipi, in quanto “particolarmente esposta al doppio registro
che oppone minaccia e degrado da una parte, autenticità, cura, materno oblativo
dall’altra”. La donna migrante non la ritroviamo solamente sovraesposta in
televisione come ‘madre natura’ in programmi come Ciao Darwin, ma anche al
centro delle cronache rosa e giudiziarie che ruotano attorno a Silvio
Berlusconi. Il suo ‘bunga bunga’ veicola una sintesi grottesca di orientalismo
e razzismo volto ad autolegittimarsi secondo un atteggiamento di presunzione
“in cui il capo di stato è sempre identificato con colui che penetra”.
Le autrici proseguono con riflessioni sulla
precarietà e su come essa in qualche modo vanifichi il significato del termine
‘normalità’. Ma è sulla normalità, o meglio sullo sguardo normalizzante che
bisogna soffermarsi, in quanto se da un lato lo sguardo è un sito di potere,
dall’altro esso può diventare un sito di resistenza, per cui è importante
contrastare “l’impero della normalità” che vuole le donne come soggetti unitari
e ‘autentici’, altro termine questo che va decostruito per lasciare spazio al
concetto di ibrido, creolo e meticciato. Lo sguardo va quindi riconfigurato e
gli stereotipi messi in discussione, per un continuo, vitale e conflittuale
rapporto con il visuale.