C’è un’altra striscia, una bianca, è la panchina, un magnete verso il quale la danzatrice continua a ritornare. Sembra la staccionata di Frontier, è come un’ancora di salvezza e disperazione [16].
venerdì 7 dicembre 2012
Identità che s/ballano in rete
C’è un’altra striscia, una bianca, è la panchina, un magnete verso il quale la danzatrice continua a ritornare. Sembra la staccionata di Frontier, è come un’ancora di salvezza e disperazione [16].
sabato 26 maggio 2012
tesi di dottorato in the city
mercoledì 25 aprile 2012
il mare di mezzo
Questo è un libro importantissimo. Pubblicato nel 2010, è ancora un'inchiesta preziosa per capire cosa è accaduto nel Mare Mediterraneo, il mare di mezzo, quel mare situato in una zona strategica per il flusso immigratorio dalle coste africane. Quel mare che vede le proprie acque abitate da una marea (è proprio il caso di dirlo) di cadaveri. Grazie anche a questa inchiesta di Gabriele Del Grande, si può capire meglio la primavera araba e soprattutto si può constatare come dietro a quelle che i media di solito dipingono come traversate disperate, vi siano storie e volti che restano impresse nella mente come incisioni sulla carne. Del Grande ha viaggiato fra Africa e Italia per tre anni per raccogliere testimonianze, analizzare fatti e fare domande scomode su ciò che è accaduto a migliaia di immigrati, molti dei quali scomparsi e molti altri costretti al rimpatrio.
Narra per esempio la storia di Kamel, un padre algerino alla ricerca del figlio scomparso, un padre che non si rassegna all'idea che il figlio possa essere naufragato in mare e, assieme all'avvocato Boubacar, si informa, cerca e ancora cerca: "Gli altri familiari si erano rassegnati all'idea che i figli fossero morti in mare e che i pesci avessero divorato i loro cadaveri. E non volevano sapere nient'altro. Non era così per Boubacar e Kamel. Tanti ragazzi non potevano essere spariti nel nulla. Ci doveva essere qualcosa dietro. Per questo non si erano mai dati per vinti".
Affronta inoltre l'amarissima questione delle traversate, i salvataggi e le tragedie, che in alcuni casi potevano essere evitate: "Di eritrei nel Canale di Sicilia ne erano morti a centinaia negli ultimi dieci anni. Ma a prendersi le loro vite era sempre stato il mare grosso. E mai la negligenza dei soccorritori. E degli intermediari. La rabbia dei parenti si rivolgeva anche e in primo luogo contro di loro."
L'inchiesta è suddivisa in sei parti: i padri, i padrini, diaspore, sogno in due tempi, criminali di pace e ailatiditalia. La sua scrittura scorre fluida e sicura, le storie che racconta sono ricche di dettagli, dal cibo che consuma nei viari posti che visita per effettuare le sue ricerche alle atmosfere dei luoghi, sia che si tratti della città algerina di Annaba alla vigilia della partita fra Algeria ed Egitto, che dei capannoni occupati di Rosarno. Particolarmente efficace è la parte dedicata alle traversate dei barconi nel mare di mezzo. Del Grande alterna i dati e l'analisi della sua inchiesta con uno scritto di Giorgio Gaber, "Sogno in due tempi", che dipinge il rapporto io/altro in modo tagliente e graffiante.
sabato 14 aprile 2012
i live inside a black hole
it is dark in here
nobody ever comes over
for a visit
black birds do come to
keep me company
darkness can be a nice place
if inhabited with a sense of self
my self makes sense to me
it probably does not to those who keep me here...tough shit!
venerdì 6 aprile 2012
omaggio a martha graham
domenica 1 aprile 2012
interview with Fernando Suels Mendoza
sabato 31 marzo 2012
i wish
I wish my deepest desires would not
stay
still underneath my skin
I wish they could move out
of those dark recesses
and explode
in all their fiery
flow
mercoledì 14 marzo 2012
dead or alive
whale talking - new series (6)
some were shouting from afar...
Where was I?
Was I beside the whale?
Was I inside the whale?
Was I the whale?
I did not know,
I just knew they were coming
to collect my corpse...
mercoledì 22 febbraio 2012
done into dance
This is a masterpiece of cultural history. Ann Daly manages to bring to life an iconic figure such as Isadora Duncan in a fresh and stylish way, going beyond the romantic stereotypes surrounding her legend and tracing an exceptionally well-researched portrait.
This is not a biographical work, but rather a monograph that looks at Duncan’s life and work from “a massive void” in what we could call the Duncan Studies, that is her body. As is known, in fact, there is basically no video available of her performances and most of the photographs we have were taken in a studio and were, therefore, carefully constructed.
Daly focuses on Duncan’s body from different angles. She dedicates a chapter to her dancing body which was the result of three interconnected “American movement traditions: social dance, physical culture, and ballet”. From the first tradition, Duncan gained the idea of dance “as a model of social, sexual, and moral behaviour”; from the second, the belief that dance could improve individual as well as collective body-and-mind conditions; from the third, she obtained material she could go against.
Another chapter is dedicated to the dancer’s natural body, a pure and powerful construction. Duncan repeatedly talked of the Greek culture as a culture in close connection with nature and “narrativized the origin of her identification with ‘Nature’”. This was a kind of nostalgic and bucolic response to the rise of modernity. In this sense, a famous painting from the Italian Renaissance, Botticelli’s Primavera, is used by Daly to exemplify Duncan’s complex relationship with what she saw as Nature.
Daly’s book is also highly informative of the period and cultural movements that influenced Duncan’s work, such as the so called “Delsarte System of Expression”, which
Established a harmonious theory of the human system: first, life, the sensitive state of the vital realm, expressed through the limbs and excentric (outward) motion; second, soul, the moral state of the moral realm, expressed through the torso and balanced motion; third, mind, the intellectual state, expressed through the head and concentric (inward) motion.
Delsarte’s theories were reshaped in the United States by his follower, Steele MacKaye and, more successfully, by MacKaye’s student, Genevieve Stebbins, whose work was quite influential among, besides Duncan, other modern dancers like Ruth St. Denis.
Through Daly's analysis, Duncan emerges as still a fundamental figure in dance and cultural history, but with a more refined and detailed contour. Daly’s study is also filled with beautiful photographs and artworks inspired by Duncan's dancing image.
sabato 4 febbraio 2012
ritmo di parola e gesto
RITMO DI PAROLA E GESTO: INTERVISTA A VALERIA SIMONE
Ruvo di Puglia, 22 maggio 2011
Il teatro-danza della drammaturga e regista Valeria Simone è costituito da visioni raffinate e
rarefatte al centro delle quali alberga la vita delle donne, complessa, fragile, forte. Nel 2003 Simone ha esordito con lo spettacolo Things. Tra i mondi di Francesca Woodman, ispirato all’immaginario elegante e sfuggente della giovane fotografa nordamericana. Nel 2006 ha iniziato un percorso sulla vita delle donne ai margini, come le donne vittime di tratta o quelle chiuse in carcere. Sono così nati No-body (2006) e Si por hazar (2009), che ha vinto il premio per la drammaturgia contemporanea Mai detto m’hai detto promosso dal FORMATI e dall’Amat della regione Marche. Ultimamente ha scritto lo spettacolo per bambini e ragazzi, Nina e le nuvole, prodotto dalla Compagnia Menhir, diretto e coreografato da Giulio De Leo. Ho incontrato Simone nella sua deliziosa casa di Ruvo di Puglia, una cittadina di luce e pietre bianche.
Come è nato il tuo interesse per il teatro?
Tantissimo tempo fa, durante la scuola media. Avevo un professore di italiano illuminato che invece di fare il programma canonico ci faceva metter in scena Eduardo de Filippo. E quindi ho iniziato a leggermi tutto de Filippo, tutto Shakespeare e molto presto ho iniziato a leggere i classici del teatro. Da lì è nata la mia passione.
E la danza?
Dai sei agli undici anni ho studiato danza classica. E a sei anni ho scritto la mia prima poesia dedicata a Tersicore.
In che modo ha preso corpo il tuo primo spettacolo?
Il mio primo spettacolo è stata una riscrittura in francese di Alice nello specchio di Lewis Carroll fatta assieme a Coralie Grelaud. L’abbiamo presentato al festival di Castiglioncello con il titolo Miroir d’Alice. Però il primo spettacolo che ho scritto e diretto si chiama Things – tra i mondi di Francesca Woodman.
Quindi il tuo lavoro ha preso il via da un impulso visivo che poi ricorre anche in altre tue opere.
Nel caso di Francesca Woodman ho amato moltissimo le sue foto che sembrano creare dei mondi paralleli e ho avuto il desiderio di ricreare quei mondi in scena, perché avevo la sensazione che ogni foto raccontasse una storia e raccontasse un aspetto misterioso della femminilità e quindi tutto si è costruito intorno alle sue foto. Invece per quanto riguarda lo spettacolo successivo, quello sulla tratta delle donne, mi ha ispirato molto l’opera della scultrice fiamminga Belinde De Bruyckere, però in quel caso non sono partita dalle sue sculture, ma mi è sembrato che le sue sculture fossero la rappresentazione di quello che io volevo raccontare.
Una volta che è stata scritta la drammaturgia il tuo lavoro cambia durante la messa in scena? Quando inizi a lavorare con gli attori-danzatori? Oppure sei abbastanza ferma nel far rispettare una battuta, nel far rispettare un movimento.
Di solito sono molto ferma, nel momento in cui si è fissato il testo e si è fissata la partitura del movimento…è anche vero che decido di fermarli dopo averli sperimentati tantissimo. Il testo non lo scrivo mai prima di creare le scene, le creo insieme. La versione definitiva è il frutto di una lunga sperimentazione che avviene prima.
Come interagisce la scrittura verbale con quella gestuale, visto che nei tuoi spettacoli c’è spesso una parte danzata?
Intanto sono complementari ma sono anche, in un certo senso, affini, perché la parola cerca sempre di seguire il ritmo del gesto. Ci tengo ad usare delle parole che abbiano un ritmo preciso.
Nei tuoi lavori hai trattato temi importanti come la tratta o la vita delle detenute. Che cosa ti porta a scegliere questo tipo di temi?
Sento molto il bisogno di raccontare le storie di donne che vivono in condizioni di marginalità sociale, la loro storia è parte della mia in quanto donna. Per me è anche importante costruire un immaginario che andrà in scena attraverso la conoscenza diretta di queste donne. Non riuscirei a raccontare la storia di qualcuno o di una realtà che non ho mai conosciuto. Conoscere, parlare, condividere dei momenti, sia con le donne vittime di tratta che con le detenute, è stato fondamentale.
Per quanto riguarda Nina e le nuvole, per la prima volta hai scritto per qualcun altro.
È stata una bellissima esperienza perché la scrittura per qualcun altro prende molto la forma di un dono e quindi è molto importante stare in ascolto anche delle esigenze del gruppo, nel senso che era importante che quello che io scrivevo fosse molto in sintonia con la forma che stava prendendo la coreografia e la regia, quindi è stato davvero un lavoro di gruppo. Molto diverso da quando ho scritto dei testi per me, in quanto seguivo un immaginario che era solo mio, mentre in questo caso dovevo stare molto in ascolto dell’immaginario degli altri. Quindi è stato un lavoro di grande ascolto e di dono, spesso dovendo anche rinunciare a una forma che a me piaceva di più.
E poi è uno spettacolo pensato per bambini e ragazzi, questo ti ha condizionato? Ha cambiato il tuo modo di scrivere?
Ha cambiato tantissimo il mio modo di scrivere, perché il linguaggio dei bambini è un linguaggio molto diverso. È stato strano perché quando scrivo i miei spettacoli uso liberamente lo stile che sento più efficace in quel momento che di solito è quello vicino alla lirica, alla scrittura in versi, perché rispetta il ritmo del movimento. In questo caso invece la struttura drammaturgica è stata riempita molto dai dialoghi, quindi questa è stata già una novità per me e sentivo che era importante perché per far parlare quei personaggi c’era bisogno di una struttura diversa. È stata la prima volta inoltre che ho scritto per i bambini e ho sempre cercato di immaginarmeli davanti in quel momento, però, allo stesso tempo, ho cercato di immaginarmi davanti anche gli adulti, quindi ho sperato che la scrittura potesse avere un doppio strato di significato, uno che funzionasse per entrambi.
E lo spettacolo in sé conserva un afflato poetico. Che ne pensi dello spettacolo? Di che cosa tratta?
Lo spettacolo su un piano puramente narrativo racconta il viaggio di Nina, un cigno che vive nel nord e che durante l’autunno decide di andare verso il sud perché associa il grigio e le nuvole alla tristezza e quindi decide di andare verso il sole sperando di trovare lì la gioia che non trova a nord. Incontrerà un’amica, il cigno Annika e affronterà con lei numerose difficoltà. Per me questo spettacolo si incentra sulla capacità di guardare la realtà. Infatti all’inizio Nina guarda il mondo umido e piovoso e per lei è un mondo di tristezza. Invece dopo il viaggio Nina vede le cose in modo diverso, ha recuperato l’aspetto anche magico, positivo della vita. Pensando al pubblico adulto, Annika e Nina rappresentano i due aspetti della psiche femminile, quello più coraggioso e avventuroso e quello più prudente, che ha bisogno di vedere le cose, di capirle.
Che ne pensi della messa in scena?
La messa in scena a me è piaciuta moltissimo, credo che sia molto equilibrata, leggera e anche poetica.
E dei costumi, le luci, la musica?
Ho amato molto le musiche di Livio Minafra…e penso che davvero siano in sintonia con il messaggio del cambiamento e dell’esplorazione di sé. Credo che la compagnia abbia fatto un buon lavoro per quanto riguarda la scelta degli oggetti e dei costumi curati da Porziana Catalano e Iole Cilento, è un lavoro che ha rispettato molto quello che si andava creando. Tutti i collaboratori hanno lavorato fianco a fianco.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi piacerebbe scrivere un testo sulle badanti. Vorrei continuare ad esplorare la condizione delle donne che si trovano in situazione di marginalità sociale. Non so ancora se vorrò occuparmi della regia o se mi piacerebbe trovare qualcuno a cui donare questo testo.
nota - le foto raffigurano Si por hazar, No-body e Nina e le nuvole.
albero, ecologia dell'anima (recensione)
ALBERO, ECOLOGIA DELL'ANIMA
Mostra di pittura di Elisa Latini
Jesi, Palazzo dei Convegni, 31 maggio 2011
Dal 27 maggio al 4 giugno 2011, il Palazzo dei Convegni di Jesi ha ospitato la mostra di pittura di Elisa Latini, una giovane artista del luogo che ha presentato il frutto di una ricerca durata più di due anni. Il titolo, “Albero, ecologia dell’anima”, evidenzia il fulcro del suo studio, l’albero, e le risonanze ad esso collegate. L’albero ha una ricchissima presenza nella storia e cultura dei popoli e Latini ne ha trasfigurato l’immagine per dar corpo al suo essere una presenza spirituale e, appunto, ecologica. Gli alberi dipinti sono soprattutto alberi che popolano la città di Jesi, alberi che magari spesso si incontrano in città ma che, altrettanto spesso, vengono ignorati o, ancor peggio, dati per scontati. L’artista ci invita quindi a riflettere sul paesaggio che caratterizza la nostra quotidianità e ad osservarlo con occhi nuovi.
I suoi dipinti non sono puramente figurativi, ma riprendono le suggestioni cromatiche date da un tramonto o dall’effetto della luce tra i rami per indagarne gli elementi introspettivi. Latini utilizza una tecnica che coniuga l’impiego di tratti fatti a penna con pennellate morbide e raffinate. L’istallazione dei quadri segue un’idea precisa di sacralità. Essi sono appesi alle pareti dello spazio espositivo, ma sono anche appesi a dei pannelli in legno che sono stati pensati e modulati a seconda del quadro che dovevano ospitare. I pannelli sono situati al centro attorno ad un gruppo di piantine di querce e lecci. Questa scelta sembra voler stabilire una connessione fondamentale tra il ‘bosco’ costituito dai quadri e quello fatto di terra, radici e foglie.
La prospettiva di molti dei dipinti è dal basso verso l’alto ed è indicativa, da un lato, del profondo rispetto che l’artista ha per queste creature e, dall’altro, della piccolezza dell’essere umano nei confronti della natura, aspetto troppo spesso sottovalutato. Questa prospettiva, ci ricorda Latini, è inoltre associata all’immagine dell’albero come protettore. L’albero ci protegge dal sole e la sua stazza infonde un senso di sicurezza. Un quadro, in particolare, presenta un cedro del Libano visto dal basso. La luce che penetra tra i rami crea un perfetto gioco di linee e diagonali e produce un senso quasi di stupore di fronte alla sua maestosità.
Il 31 maggio si è tenuto un incontro sull’albero che ha visto la mostra di Latini come il luogo ideale per uno scambio di riflessioni. Se Latini ha esordito parlando delle affinità fra alberi e esseri umani, il direttore del parco Gola della Rossa, Massimo Scotti, ha sottolineato “l’importanza dei boschi per il servizio ecosistemico”. Dopo di lui, il grafico e illustratore Danilo Santinelli ha fornito delle coordinate iconografiche collegando l’albero al “concetto della crescita” e all’unione di diversi elementi come la terra (le radici) e l’aria (tronco e rami). L’agronomo, Riccardo Frontini, ha parlato dell’albero come creatura che va curata e trattata con attenzione, sottolineando come il lavoro di Latini mostri quasi l’anima che lo caratterizza. Infine, l’insegnante di scuola elementare, Rosaria Nalli, ha presentato un video del laboratorio sull’albero fatto in collaborazione con Latini stessa, per portare la conoscenza e consapevolezza della sua presenza anche fra i bambini, che saranno gli adulti di domani.
nota - si veda anche l'intervista che ho fatto all'artista, qui.