sabato 4 febbraio 2012

ritmo di parola e gesto

Questa intervista si può anche consultare sul numero 155 (aprile-maggio-giugno 2012) della rivista Leggere Donna (pp.33-34).

RITMO DI PAROLA E GESTO: INTERVISTA A VALERIA SIMONE
Ruvo di Puglia, 22 maggio 2011

Il teatro-danza della drammaturga e regista Valeria Simone è costituito da visioni raffinate e
rarefatte al centro delle quali alberga la vita delle donne, complessa, fragile, forte. Nel 2003 Simone ha esordito con lo spettacolo Things. Tra i mondi di Francesca Woodman, ispirato all’immaginario elegante e sfuggente della giovane fotografa nordamericana. Nel 2006 ha iniziato un percorso sulla vita delle donne ai margini, come le donne vittime di tratta o quelle chiuse in carcere. Sono così nati No-body (2006) e Si por hazar (2009), che ha vinto il premio per la drammaturgia contemporanea Mai detto m’hai detto promosso dal FORMATI e dall’Amat della regione Marche. Ultimamente ha scritto lo spettacolo per bambini e ragazzi, Nina e le nuvole, prodotto dalla Compagnia Menhir, diretto e coreografato da Giulio De Leo. Ho incontrato Simone nella sua deliziosa casa di Ruvo di Puglia, una cittadina di luce e pietre bianche.

Come è nato il tuo interesse per il teatro?
Tantissimo tempo fa, durante la scuola media. Avevo un professore di italiano illuminato che invece di fare il programma canonico ci faceva metter in scena Eduardo de Filippo. E quindi ho iniziato a leggermi tutto de Filippo, tutto Shakespeare e molto presto ho iniziato a leggere i classici del teatro. Da lì è nata la mia passione.

E la danza?
Dai sei agli undici anni ho studiato danza classica. E a sei anni ho scritto la mia prima poesia dedicata a Tersicore.

In che modo ha preso corpo il tuo primo spettacolo?
Il mio primo spettacolo è stata una riscrittura in francese di Alice nello specchio di Lewis Carroll fatta assieme a Coralie Grelaud. L’abbiamo presentato al festival di Castiglioncello con il titolo Miroir d’Alice. Però il primo spettacolo che ho scritto e diretto si chiama Things – tra i mondi di Francesca Woodman.

Quindi il tuo lavoro ha preso il via da un impulso visivo che poi ricorre anche in altre tue opere.
Nel caso di Francesca Woodman ho amato moltissimo le sue foto che sembrano creare dei mondi paralleli e ho avuto il desiderio di ricreare quei mondi in scena, perché avevo la sensazione che ogni foto raccontasse una storia e raccontasse un aspetto misterioso della femminilità e quindi tutto si è costruito intorno alle sue foto. Invece per quanto riguarda lo spettacolo successivo, quello sulla tratta delle donne, mi ha ispirato molto l’opera della scultrice fiamminga Belinde De Bruyckere, però in quel caso non sono partita dalle sue sculture, ma mi è sembrato che le sue sculture fossero la rappresentazione di quello che io volevo raccontare.

Una volta che è stata scritta la drammaturgia il tuo lavoro cambia durante la messa in scena? Quando inizi a lavorare con gli attori-danzatori? Oppure sei abbastanza ferma nel far rispettare una battuta, nel far rispettare un movimento.
Di solito sono molto ferma, nel momento in cui si è fissato il testo e si è fissata la partitura del movimento…è anche vero che decido di fermarli dopo averli sperimentati tantissimo. Il testo non lo scrivo mai prima di creare le scene, le creo insieme. La versione definitiva è il frutto di una lunga sperimentazione che avviene prima.

Come interagisce la scrittura verbale con quella gestuale, visto che nei tuoi spettacoli c’è spesso una parte danzata?
Intanto sono complementari ma sono anche, in un certo senso, affini, perché la parola cerca sempre di seguire il ritmo del gesto. Ci tengo ad usare delle parole che abbiano un ritmo preciso.

Nei tuoi lavori hai trattato temi importanti come la tratta o la vita delle detenute. Che cosa ti porta a scegliere questo tipo di temi?
Sento molto il bisogno di raccontare le storie di donne che vivono in condizioni di marginalità sociale, la loro storia è parte della mia in quanto donna. Per me è anche importante costruire un immaginario che andrà in scena attraverso la conoscenza diretta di queste donne. Non riuscirei a raccontare la storia di qualcuno o di una realtà che non ho mai conosciuto. Conoscere, parlare, condividere dei momenti, sia con le donne vittime di tratta che con le detenute, è stato fondamentale.

Per quanto riguarda Nina e le nuvole, per la prima volta hai scritto per qualcun altro.
È stata una bellissima esperienza perché la scrittura per qualcun altro prende molto la forma di un dono e quindi è molto importante stare in ascolto anche delle esigenze del gruppo, nel senso che era importante che quello che io scrivevo fosse molto in sintonia con la forma che stava prendendo la coreografia e la regia, quindi è stato davvero un lavoro di gruppo. Molto diverso da quando ho scritto dei testi per me, in quanto seguivo un immaginario che era solo mio, mentre in questo caso dovevo stare molto in ascolto dell’immaginario degli altri. Quindi è stato un lavoro di grande ascolto e di dono, spesso dovendo anche rinunciare a una forma che a me piaceva di più.

E poi è uno spettacolo pensato per bambini e ragazzi, questo ti ha condizionato? Ha cambiato il tuo modo di scrivere?
Ha cambiato tantissimo il mio modo di scrivere, perché il linguaggio dei bambini è un linguaggio molto diverso. È stato strano perché quando scrivo i miei spettacoli uso liberamente lo stile che sento più efficace in quel momento che di solito è quello vicino alla lirica, alla scrittura in versi, perché rispetta il ritmo del movimento. In questo caso invece la struttura drammaturgica è stata riempita molto dai dialoghi, quindi questa è stata già una novità per me e sentivo che era importante perché per far parlare quei personaggi c’era bisogno di una struttura diversa. È stata la prima volta inoltre che ho scritto per i bambini e ho sempre cercato di immaginarmeli davanti in quel momento, però, allo stesso tempo, ho cercato di immaginarmi davanti anche gli adulti, quindi ho sperato che la scrittura potesse avere un doppio strato di significato, uno che funzionasse per entrambi.

E lo spettacolo in sé conserva un afflato poetico. Che ne pensi dello spettacolo? Di che cosa tratta?
Lo spettacolo su un piano puramente narrativo racconta il viaggio di Nina, un cigno che vive nel nord e che durante l’autunno decide di andare verso il sud perché associa il grigio e le nuvole alla tristezza e quindi decide di andare verso il sole sperando di trovare lì la gioia che non trova a nord. Incontrerà un’amica, il cigno Annika e affronterà con lei numerose difficoltà. Per me questo spettacolo si incentra sulla capacità di guardare la realtà. Infatti all’inizio Nina guarda il mondo umido e piovoso e per lei è un mondo di tristezza. Invece dopo il viaggio Nina vede le cose in modo diverso, ha recuperato l’aspetto anche magico, positivo della vita. Pensando al pubblico adulto, Annika e Nina rappresentano i due aspetti della psiche femminile, quello più coraggioso e avventuroso e quello più prudente, che ha bisogno di vedere le cose, di capirle.

Che ne pensi della messa in scena?
La messa in scena a me è piaciuta moltissimo, credo che sia molto equilibrata, leggera e anche poetica.

E dei costumi, le luci, la musica?
Ho amato molto le musiche di Livio Minafra…e penso che davvero siano in sintonia con il messaggio del cambiamento e dell’esplorazione di sé. Credo che la compagnia abbia fatto un buon lavoro per quanto riguarda la scelta degli oggetti e dei costumi curati da Porziana Catalano e Iole Cilento, è un lavoro che ha rispettato molto quello che si andava creando. Tutti i collaboratori hanno lavorato fianco a fianco.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi piacerebbe scrivere un testo sulle badanti. Vorrei continuare ad esplorare la condizione delle donne che si trovano in situazione di marginalità sociale. Non so ancora se vorrò occuparmi della regia o se mi piacerebbe trovare qualcuno a cui donare questo testo.

nota - le foto raffigurano Si por hazar, No-body e Nina e le nuvole.

Nessun commento: