domenica 17 aprile 2016

Incontro (riflessione, introduzione)

Incontrarsi online...
La parola ‘incontro’ deriva dal latino tardo ‘incontra’, ‘trovarsi di fronte’, da cui il significato odierno, “occasione di colloquio e di conoscenza che si crea quando due o più persone si trovano nello stesso luogo contemporaneamente” (diz. Corriere.it), o anche “direzione di movimento, e più in partic. movimento verso persone che siano a loro volta dirette o rivolte verso di noi” (voc. Treccani.it).

I significati qui enumerati ben esprimono le sfumature che questo sostantivo ha assunto nel corso di una intensissima storia online fra me e un’altra persona che chiamerò l’amato, storia che poi è stata violata da quello che chiamerò il terzo incomodo. Incontro a vari livelli, virtuale, d’amore, di violenza psicologica e così via. Da cui anche il titolo a questo post e a quelli ad esso collegati. Si tratta di una storia vera? O di un’invenzione? La necessità di questa riflessione parte dall’esigenza di riordinare una notevole mole di materiale che ho scritto nel corso degli ultimi tre mesi circa e che, seppur abbia radici in alcuni eventi realmente accaduti (la storia d’amore, la scrittura, le molestie e la violenza psicologica), ha anche dato il via ad una sperimentazione narrativa solo parzialmente autobiografica che coniuga prosa e poesia, registri passionali e colloquiali e mostra come la realtà virtuale plasmi la realtà reale e come le persone possano relazionarsi nel corso di una esperienza particolarmente forte. La storia ha inizio a fine novembre, ma entra nel vivo di questo blog a gennaio. A marzo iniziano le molestie pesanti e la violenza psicologica da parte del terzo incomodo.

Internet ha reso possibile incontri e scambi che altrimenti non sarebbero probabilmente mai avvenuti o comunque sarebbero avvenuti secondo modalità e tempi diversi. La prospettiva dicotomica secondo la quale ancora oggi si guarda a internet, i.e. realtà virtuale da un lato e realtà reale dall’altro, non ha senso, in quanto l’una confluisce nell’altra, l’una nutre l’altra e viceversa.

Scomodando un classico della teoria queer e cyborg, “A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century”, di Donna Haraway, possiamo dire che da tempo siamo dei cyborg, siamo già un insieme di organismi e macchine e soprattutto siamo soggetti non unificati, non riconducibili ad una singola matrice identitaria. Siamo molteplici e come tali ci riversiamo poi sui social e sul world wide web. Certo Haraway parla di soggetti post-gender, parla del superamento, almeno auspicato, di certe barriere, ma certe dinamiche relazionali non scompaiono nel mondo virtuale, vi vengono riprodotte e anzi si riadattano alle nuove condizioni dettate da questa dimensione e spesso ne vengono straordinariamente amplificate sia nel bene che nel male.

TRS-80, uno dei primi computer, 1977.
Internet ha modificato profondamente le nostre vite e i social le hanno forse ancora più ‘privatizzate’ rispetto a quello che Haraway dice, “le nuove tecnologie di comunicazione sono fondamentali per eradicare la ‘vita pubblica’ di ognuno” (Haraway, 1991: 168, traduzione mia). Si passano ore e giornate davanti al computer a socializzare e non si esce più, non ci si incontra più nella realtà ‘reale’. Così pure in questa vicenda, ogni tentativo di organizzare un incontro ‘reale’ è andato in fumo. E questo pone delle domande sullo scarto fra realtà reale e virtuale, nel senso che, se, come è stato appena detto, l’una confluisce nell’altra, allo stesso tempo non è scontato che una persona sia la stessa nella realtà reale e virtuale, proprio per il discorso sulla molteplicità e non solo. C’è la questione corporea. Katherine Hayles, alla fine degli anni Novanta, ha condotto una formidabile analisi sul mondo virtuale nel suo How We Became Posthuman – Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, sottolineando come la perdita o, se vogliamo, la riformulazione del corporeo tramite internet, abbia prodotto una rivoluzione anche nella rappresentazione dei generi. Una delle analisi che conduce, riguarda proprio la separazione dell’informazione dalla sua materialità, con l’espressione ‘corpi virtuali’ intendo alludere alla separazione storica tra informazione e materialità e inoltre fare riferimento ai processi incarnati che resistono a questa divisione” (Hayles, 1999: 20, traduzione mia). Cosa provano, cosa proviamo in qualità di cyborg? Cosa ci succede quando comunichiamo online? In molti casi le barriere inibitorie saltano e si scrivono cose che forse neanche si avrebbe il coraggio di dire di persona. Si entra in un circolo che può essere virtuoso perché ci fa stare veramente bene e può anche essere vizioso, nel momento in cui le cose non vanno più per il verso giusto. E il tempo, il senso del tempo diviene rizomatico, frammentario e multiforme, come è stato di recente ribadito da Vanni Codeluppi, “ne risulta che il tempo dei media elettronici in apparenza potrebbe sembrare lineare, ma in realtà è frammentato, composto cioè di un gran numero di istanti intensi separati da degli intervalli” (Codeluppi, 2016: doppiozero.com).

Henry Jenkins fa il punto su quella che denomina la ‘cultura della convergenza’, ossia un nuovo tipo di cultura dove i contenuti, le informazioni vengono divulgati su vari tipi di mezzi di comunicazione, dal cellulare, al computer, ai video games ecc.. Questa prospettiva si avvale della modalità partecipativa del pubblico che non può più essere visto come passivo, ma deve essere incluso nella ‘franchise’ di un film, un reality e simili, “la convergenza avviene nei cervelli dei consumatori individuali e attraverso la loro interazione sociale con gli altri” (Jenkins, 2006: 3, traduzione mia). Perché parlare di convergenza nel caso di questa storia? Perché è in questo tipo di cultura che si è sviluppata e ha visto l’intersecarsi dei social netowrk con alcuni blog e la condivisione di tutta una serie di contenuti attraverso queste piattaforme. In aggiunta, come sottolinea Jenkins, “quando le persone prendono in mano i media, i risultati possono essere meravigliosamente creativi e possono anche rappresentare cattive notizie per tutti” (Jenkins, 2006: 17, traduzione mia). E questo è quello che è accaduto. Se da un lato è nata una stupenda storia d’amore, dall’altro vi è stata una violenza psicologica che ha quasi distrutto tutto.

Un fiore...
Ma cosa significa vivere una storia d’amore online? Sempre con Jenkins possiamo dire che “anche le nostre vite, relazioni, memorie, fantasie, desideri fluiscono nei canali dei mezzi di comunicazione” (Jenkins, 2006: 17, traduzione mia). Quindi vivere una storia d’amore online significa imparare a conoscere una persona, avere uno scambio profondo con lei e un’intesa che cresce anche di fronte alle difficoltà. Significa capirsi al volo e dirselo tramite la pubblicazione di un’immagine o l’utilizzo di una parola significativa. L’aspetto particolare di questa storia risiede in una regola di base che l’amato ha dettato e che è stata da me accettata. La regola in questione era l’assenza di qualsiasi contatto diretto, come un messaggio privato o una chiamata telefonica. Il risultato è stato la creazione di un linguaggio fatto di sfumature spesso molto sofisticate e di allusioni a volte travolgenti. Avete mai sperimentato una carezza virtuale? È dolcissima. È quando tu pubblichi l’immagine di un fiore e subito dopo l’altra persona, memore di uno scambio magnifico la sera prima, pubblica un articolo in qualche modo collegato. È una sensazione che ti penetra alla radice e ti trasforma, ti tocca dentro in luoghi dove si pensa che la realtà virtuale non possa arrivare. E invece vi giunge in tutto il suo luccichio surreale, avvolgente e tangibile.

Una conseguenza di questo rapporto per me è stata la scrittura di versi in rima. Poesie che ho chiamato canti in quanto pensate per celebrare questo amore e ringraziare la persona amata di un suo dono inaspettato e impetuoso. Qui e qui i link ai due canti inaugurali. Questo è uno degli elementi veri e sostanziali di questa storia, perché ha costituito uno dei momenti più belli di tutta la mia vita. E non tanto lo scrivere, ma scrivere d’amore sapendo che l’amato avrebbe letto, sapendo che dall’altra parte in un altro schermo un’altra persona avrebbe controllato questo blog per leggere il mio canto. Come io poi avrei letto le sue reazioni e risposte e trovato in esse stimoli per nuovi canti. Un dialogo preziosissimo, che nessuno ci può togliere. Un dialogo che mi ha aperto le porte anche alla poesia erotica (qui un esempio), che non avevo mai sperimentato e che ho trovato liberatoria e divertente, oltre che ricolma di quel desiderio per l’amato che sfortunatamente non si è mai tradotto in incontro ‘reale’.

Purtroppo questo splendore non è durato a lungo, purtroppo è stato devastato dall’invidia, dalla molestia e dalla violenza del terzo incomodo. Eva Illouz, nel suo importante studio sull’amore, Why Love Hurts – A Sociological Explanation, presenta una prospettiva inusuale, e analizza l’amore eterosessuale nel suo contesto sociale mettendo in discussione l’assunto secondo il quale le sofferenze in amore si possano analizzare solo a livello psicologico perché circoscritte alla sfera individuale. L’amore, secondo Illouz, è “plasmato dalle relazioni e istituzioni sociali e circola in un mercato di attori diseguali” (Illouz, 2012: risvolto di copertina, traduzione mia). L’amore non ha a che fare ‘solo’ con i sentimenti, ma anche con i rapporti sociali e rappresenta “più di un ideale culturale; è una base fondante del sé” (Illouz, 2012: 247, traduzione mia). Anche online, l’amore può essere un legame fortissimo e profondo e può essere interrotto, come avviene nella realtà reale. Che tipo di società, quali istituzioni hanno portato alla messa in crisi di un rapporto che viveva di luce propria? In questo caso, come già detto, l’invidia e l’incapacità del terzo incomodo di farsi da parte e accettare il mio no fermo e deciso già a fine gennaio. Questa incapacità, assieme al fatto che il rapporto veniva vissuto attraverso canali pubblici e non privati, seppur semisconosciuti ai più, ha dato vita ad una dinamica a tre fatta di soprusi, ricatti e molestie che hanno anche valicato i confini di internet. La mia scrittura ne ha risentito in modo grave, la magia si è persa e la vena creativa è per ora quasi totalmente ferma. Ci sono poi sicuramente altre ragioni di diverso tipo che hanno portato alla crisi del rapporto, ragioni forse di tipo economico, lavorativo e così via. L'elemento psicologico, in questo senso, è pertinente solo fino ad un certo punto.

Whoopi Goldberg in Jumpin' Jack Flash.
In un primo momento, io e l'amato abbiamo provato a continuare, ma le continue pressioni del terzo incomodo, sempre più incalzanti, hanno sbriciolato il rapporto. A questo punto e non prima, il contatto diretto è divenuto fondamentale e avrebbe probabilmente risolto quasi del tutto la situazione. Ciò non è avvenuto e il silenzio sui social da parte mia si è fatto più costante, con lo stress che a volte ha raggiunto livelli insopportabili e la fiducia fra me e l’amato che deve essere ricostruita ogni giorno. Niente è più come prima e non si può far finta che nulla sia accaduto. E gli altri? Le persone che hanno intercettato una parte della storia? Una mia amica mi ha aiutato, ascoltando ogni tanto le mie sofferenze, facendomi uscire e distraendomi un po'. Altri, soprattutto gli amici in comune a tutti e tre, sono semplicemente restati a guardare, minimizzando la cosa se interpellati. Questo è un altro aspetto che fa riflettere, perché se seguo online un’amica che parla di molestie che poi riguardano una persona che conosco, il minimo che mi sento di fare è di contattarla e di chiederle cos’è che non va. Poi posso anche crederle o meno, posso anche dirle la mia, ma il contatto e l’ascolto sono il primo passo e questo non è avvenuto. Paradossalmente, queste persone, e l’ho già detto altrove, hanno criticato l’assenza di contatto diretto da parte dell’amato reiterando loro stessi questa assenza. E questo lo pone al di sopra degli altri, perché se dobbiamo accettare questa regola, egli è insuperabile nel gestire la comunicazione, soprattutto nei miei riguardi. Ma da marzo, soprattutto verso la fine, tutto è cambiato.

Possiamo parlare di cyberstalking nel caso del terzo incomodo? Se prendiamo in esame le condizioni in cui la molestia e violenza psicologica sono avvenute, sì. Poiché vista dall’esterno, è sembrata e sembra forse un gioco fra tre persone che citano libri, canzoni e scrivono canti, ma vista mettendo in fila i vari scambi (cosa complessissima da fare) che risalgono a fine novembre 2015 e soprattutto tenendo presente la regola dell’assenza del contatto diretto, sì, possiamo parlare di cyberstalking. La qual cosa non prevede però misure legali, a meno che non si provi a spiegare tutte le varie sfumature e collegamenti a un qualche pubblico ufficiale, il che è praticamente impossibile. Questo perché il terzo incomodo ha sempre dato per scontato che io andassi a controllare le sue pagine sui social per non incorrere in malintesi con l’amato e questo aspetto è stato da lui sfruttato per impostare la molestia. Quindi lo ripeto, il problema non è il rapporto fra me e l’amato o l’assenza di chiamata, il problema è che all’interno del nostro rapporto si sono verificate molestie da parte del terzo incomodo. È come dire, se uno ti dà fastidio per telefono, smetti di usare il cellulare. Ecco, non si può porre la questione in questi termini, altrimenti si ricade nel solito stereotipo della tipa che si va a cercare i guai da sola. È uscita la sera, non doveva farlo. Indossava la minigonna, è colpa sua. Io non ho nessuna colpa se non quella di voler interagire con l’amato, se vogliamo chiamarla colpa allora sono colpevole di questo. Niente altro.

Nel 2001 Louise Ellison and Yaman Akdeniz hanno analizzato le inadeguatezze del sistema legale inglese per quanto concerne le molestie online nel loro saggio, “Cyber-stalking: the Regulation of Harassment on the Internet”, il fenomeno del cyberstalking e molestia online sembra essere il fulcro del panico morale relativo a internet (Ellison e Akdeniz, 2001: 1, traduzione mia). E a quindici anni di distanza, in Italia, ancora dobbiamo capire come regolamentare le interazioni online e ci troviamo ancora a lottare contro un sessismo di base e un tipo di aggressività contro le donne e non solo (c’è tantissimo da dire su questo e magari ci tornerò), che preclude la libertà d’espressione e movimento nel cyberspazio. I social hanno cambiato radicalmente il nostro modo di relazionarci, ma non hanno dissolto certe pratiche violente, anzi le hanno rese più complesse e difficili da tracciare. Sullo stalking in genere rimando ad un articolo del blog Abbatto i muri, molto interessante, “L’ambiguo stalker è quello che ti soffoca con le sue ‘gentilezze’” dove si sottolinea come ci si illuda di poter ragionare con una persona che ci molesta, perché si pensa possa rispettare il nostro volere. Ma è tutto inutile, queste persone viaggiano su altri binari e il fatto che il terzo incomodo non abbia mai chiesto scusa di quello che ha fatto e non abbia mai mostrato neanche un milligrammo della sensibilità dell’amato, è un’ulteriore riprova del fatto che l’unica cosa da fare è allontanarlo, bloccarlo sui social e lasciarlo perdere. Così ho fatto lo scorso 9 aprile. Il problema è che ora si è infiltrato nei canali dell’amato facendo notevoli pressioni su di lui, continuando a molestarmi e inquinando sempre di più il nostro rapporto. 

Silence di Bo Wang che ha ritratto la nonna morente.
In tutta questa vicenda c’è anche un altro elemento che mi riguarda e che vorrei sottolineare per delineare in parte il contesto in cui ho vissuto questa esperienza. Si tratta del lavoro di cura. Per inciso (e qui mi rivolgo a chi sa, come l'amato), il termine cura appare in un articolo apparso due giorni fa sulle pagine dell’amato, sospetto provenga però dal terzo incomodo, non ho letto l’articolo, ormai quello che ritengo possa essere riconducibile al terzo incomodo non lo leggo o smetto di leggerlo. Questo mio discorso sulla cura, quindi, non ha nulla a che fare con quell’articolo, questo per far capire come il sistema di comunicazione fra di noi sia ormai tossico e quasi impossibile da portare avanti in questi termini. Secondo Joan Tronto, il lavoro di cura dovrebbe essere messo al centro della nostra società, in quanto “la cura ci aiuta a ripensare gli esseri umani quali esseri interdipendenti” (Tronto, 2013: 25). La retorica secondo la quale siamo tutti uguali non tiene conto di questo elemento sostanziale. L’individualismo sfrenato che ci caratterizza oggi poggia su questa falla, che si rivela in tutta la sua forza nel momento in cui c’è l’insorgere di una malattia in un nostro amico o amica o in qualcuno che ci è vicino. La malattia è un tabù perché ci avvicina a quel senso di vulnerabilità che al suo estremo ha un altro tabù, la morte.

La mia vita è stata plasmata dal lavoro di cura sin dal 2002, quando mia madre si è ammalata ed è divenuta invalida. Qui un canto al riguardo. Poi, negli ultimi tre anni, anche mio padre si è ammalato e, in questo caso, l’esperienza è stata devastante perché, al contrario di mia madre che si è stabilizzata quasi subito, con mio padre quasi ogni settimana c’è stato un problema da risolvere, gli infermieri da chiamare e il dottore da consultare. E via file in farmacia, telefonate, ambulanze ecc.. Durante questa esperienza poche persone mi sono state vicino e il mondo di fuori ha iniziato ad erodersi, con una storia importante che è finita, progetti di lavoro andati male, tante amicizie che si sono allontanate e il peso inesorabile del lavoro di cura da gestire quasi esclusivamente da sola sia emozionalmente che praticamente. Il 3 novembre del 2015 mio padre è deceduto per un grave problema respiratorio e mi sono sentita totalmente annullata, come se la fatica fatta per prendermi cura di lui non fosse servita a niente. Qui il mio canto che ne parla. Tutto questo mi ha isolato e reso estremamente fragile, ma anche molto lucida e consapevole del fatto che l’interdipendenza può essere un valore e che il rispetto e l’ascolto sono delle priorità in tutti i rapporti. Anche per questo mi sono imbarcata in questa storia e mi sono abbeverata avidamente del suo potere rigenerante senza indugio e senza vergogna per quello che gli altri e le altre potessero pensare e/o dire. È stato un incredibile toccasana che mi ha rimesso in carreggiata, mi ha ridato fiducia in me stessa e mi ha fatto sentire veramente viva. Poi però da marzo la situazione è degenerata e con l’amato non siamo riusciti a sbloccarla per ritrovarci. Certo nei momenti di esasperazione, soprattutto per via delle molestie, ho perso il controllo e anche l’amato ha ceduto a menzogne pesanti. Ed ora io non sono più in carreggiata come prima. Riusciremo a chiarirci io e l’amato? Ci saranno altre possibilità? Non lo so. Per ora la mia priorità è sbarazzarmi delle molestie, far sì che cessino e se questo significa smettere di leggere le pagine dell’amato con la frequenza che utilizzavo prima, per un po’ farò questo. Se mai optasse per il contatto diretto, penso molte cose potrebbero cambiare in meglio, ma per ora tutto è bloccato. Qui il mio canto più recente al riguardo.

Ho anche deciso di rielaborare la molestia e violenza psicologica tramite la scrittura e il disegno e questa riflessione ne è un esempio. Lo farò in questo blog, in altri miei blog e, se riuscirò, in altri luoghi, per ritrovare un equilibrio perduto, per risanare almeno in parte alcune delle ferite che mi porto dietro. Il materiale accumulato su questa vicenda in questo blog verrà ora riorganizzato secondo le seguenti tag e inoltre inserirò dei titoli per le poesie o canti:

Incontro (poesie)
Incontro (messaggi)
Incontro (immagini)
Incontro (vignette)
Incontro (citazioni)
Incontro (video)
Incontro (racconto)

Quest’ultima rappresenta il tentativo di raccontare la storia con un racconto vero e proprio, ma non ha avuto vita lunga ed è terminata prima di entrare nel merito della storia stessa.


MATERIALE CITATO

Vanni Codeluppi, “Tempo”, doppiozero.com, 9 aprile 2016 http://www.doppiozero.com/rubriche/1919/201603/tempo (consultato il 17 aprile 2016).

www.dizionari.corriere.it (consultato il 14 aprile 2016).

Louise Ellison e Yaman Akdeniz, “Cyber-stalking: the Regulation of Harassment on the Internet”, http://www.cyber-rights.org/documents/stalking_article.pdf (consultato il 16 aprile 2016).

laglasnost, “L’ambiguo stalker è quello che ti soffoca con le sue ‘gentilezze’”, Abbatto i muri, 8 dicembre 2015, https://abbattoimuri.wordpress.com/2015/12/08/lambiguo-stalker-e-quello-che-ti-soffoca-con-le-sue-gentilezze/  (consultato il 17 aprile 2016).

Donna Haraway, “A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century”, in Simians, Cyborgs, and Women – The Reinvention of Nature (London: Free Association Books, 1991), pp. 149-181.  

Catherine Hayles, How We Became Posthuman – Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics (Chicago: Chicago University Press, 1999).

Eva Illouz, Why Love Hurts – A Sociological Explanation (Cambridge: Polity Press, 2012).

Henry Jenkins, Convergence Culture – Where Old and New Media Collide (New York: New York University Press, 2006).

www.treccani.it/vocabolario/ (consultato il 14 aprile 2016).

Joan Tronto, Confini morali – Un argomento politico per l’etica della cura [e.o. 1993], Alessandra Facchi, a cura di, Nicola Riva, presentazione e traduzione (Parma: Diabasis, 2013).

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