Incontrarsi online... |
I significati qui
enumerati ben esprimono le sfumature che questo sostantivo ha assunto nel corso
di una intensissima storia online fra me e un’altra persona che chiamerò l’amato,
storia che poi è stata violata da quello che chiamerò il terzo incomodo. Incontro
a vari livelli, virtuale, d’amore, di violenza psicologica e così via. Da
cui anche il titolo a questo post e a quelli ad esso collegati. Si tratta di
una storia vera? O di un’invenzione? La necessità di questa riflessione parte
dall’esigenza di riordinare una notevole mole di materiale che ho scritto nel
corso degli ultimi tre mesi circa e che, seppur abbia radici in alcuni eventi
realmente accaduti (la storia d’amore, la scrittura, le molestie e la violenza
psicologica), ha anche dato il via ad una sperimentazione narrativa solo
parzialmente autobiografica che coniuga prosa e poesia, registri passionali e
colloquiali e mostra come la realtà virtuale plasmi la realtà reale e come le
persone possano relazionarsi nel corso di una esperienza
particolarmente forte. La storia ha inizio a fine novembre, ma entra nel vivo
di questo blog a gennaio. A marzo iniziano le molestie pesanti e la violenza
psicologica da parte del terzo incomodo.
Internet ha reso
possibile incontri e scambi che altrimenti non sarebbero probabilmente mai
avvenuti o comunque sarebbero avvenuti secondo modalità e tempi diversi. La
prospettiva dicotomica secondo la quale ancora oggi si guarda a internet, i.e.
realtà virtuale da un lato e realtà reale dall’altro, non ha senso, in quanto
l’una confluisce nell’altra, l’una nutre l’altra e viceversa.
Scomodando un classico
della teoria queer e cyborg, “A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and
Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century”, di Donna Haraway, possiamo
dire che da tempo siamo dei cyborg, siamo già un insieme di organismi e
macchine e soprattutto siamo soggetti non unificati, non riconducibili ad una
singola matrice identitaria. Siamo molteplici e come tali ci riversiamo poi sui
social e sul world wide web. Certo Haraway parla di soggetti post-gender, parla
del superamento, almeno auspicato, di certe barriere, ma certe dinamiche
relazionali non scompaiono nel mondo virtuale, vi vengono riprodotte e anzi si
riadattano alle nuove condizioni dettate da questa dimensione e spesso ne
vengono straordinariamente amplificate sia nel bene che nel male.
TRS-80, uno dei primi computer, 1977. |
Internet ha modificato
profondamente le nostre vite e i social le hanno forse ancora più
‘privatizzate’ rispetto a quello che Haraway dice, “le nuove tecnologie di
comunicazione sono fondamentali per eradicare la ‘vita pubblica’ di ognuno”
(Haraway, 1991: 168, traduzione mia). Si passano ore e giornate davanti al
computer a socializzare e non si esce più, non ci si incontra più nella realtà
‘reale’. Così pure in questa vicenda, ogni tentativo di organizzare un incontro
‘reale’ è andato in fumo. E questo pone delle domande sullo scarto fra realtà
reale e virtuale, nel senso che, se, come è stato appena detto, l’una confluisce
nell’altra, allo stesso tempo non è scontato che una persona sia la stessa
nella realtà reale e virtuale, proprio per il discorso sulla molteplicità e non
solo. C’è la questione corporea. Katherine Hayles, alla fine degli anni
Novanta, ha condotto una formidabile analisi sul mondo virtuale nel suo How We Became Posthuman – Virtual Bodies in
Cybernetics, Literature, and Informatics, sottolineando come la perdita o,
se vogliamo, la riformulazione del corporeo tramite internet, abbia prodotto
una rivoluzione anche nella rappresentazione dei generi. Una delle analisi che
conduce, riguarda proprio la separazione dell’informazione dalla sua
materialità, “con l’espressione ‘corpi virtuali’ intendo alludere alla
separazione storica tra informazione e materialità e inoltre fare riferimento
ai processi incarnati che resistono a questa divisione” (Hayles, 1999: 20,
traduzione mia). Cosa provano, cosa proviamo in qualità di cyborg? Cosa ci
succede quando comunichiamo online? In molti casi le barriere inibitorie
saltano e si scrivono cose che forse neanche si avrebbe il coraggio di dire di
persona. Si entra in un circolo che può essere virtuoso perché ci fa stare
veramente bene e può anche essere vizioso, nel momento in cui le cose non vanno
più per il verso giusto. E il tempo, il senso del tempo diviene rizomatico,
frammentario e multiforme, come è stato di recente ribadito da Vanni Codeluppi,
“ne risulta che il tempo dei media elettronici in
apparenza potrebbe sembrare lineare, ma in realtà è frammentato, composto cioè
di un gran numero di istanti intensi separati da degli intervalli” (Codeluppi,
2016: doppiozero.com).
Henry Jenkins fa il punto
su quella che denomina la ‘cultura della convergenza’, ossia un nuovo tipo di
cultura dove i contenuti, le informazioni vengono divulgati su vari tipi di
mezzi di comunicazione, dal cellulare, al computer, ai video games ecc.. Questa
prospettiva si avvale della modalità partecipativa del pubblico che non può più
essere visto come passivo, ma deve essere incluso nella ‘franchise’ di un film,
un reality e simili, “la convergenza avviene nei cervelli dei consumatori
individuali e attraverso la loro interazione sociale con gli altri” (Jenkins,
2006: 3, traduzione mia). Perché parlare di convergenza nel caso di questa
storia? Perché è in questo tipo di cultura che si è sviluppata e ha
visto l’intersecarsi dei social netowrk con alcuni blog e la condivisione di
tutta una serie di contenuti attraverso queste piattaforme. In aggiunta, come sottolinea Jenkins, “quando le persone
prendono in mano i media, i risultati possono essere meravigliosamente creativi
e possono anche rappresentare cattive notizie per tutti” (Jenkins, 2006: 17,
traduzione mia). E questo è quello che è accaduto. Se da un lato è nata una
stupenda storia d’amore, dall’altro vi è stata una violenza psicologica che ha
quasi distrutto tutto.
Un fiore... |
Ma cosa significa vivere
una storia d’amore online? Sempre con Jenkins possiamo dire che “anche le
nostre vite, relazioni, memorie, fantasie, desideri fluiscono nei canali dei
mezzi di comunicazione” (Jenkins, 2006: 17, traduzione mia). Quindi vivere una
storia d’amore online significa imparare a conoscere una persona, avere uno
scambio profondo con lei e un’intesa che cresce anche di fronte alle
difficoltà. Significa capirsi al volo e dirselo tramite la pubblicazione di
un’immagine o l’utilizzo di una parola significativa. L’aspetto particolare di
questa storia risiede in una regola di base che l’amato ha dettato e che è
stata da me accettata. La regola in questione era l’assenza di qualsiasi
contatto diretto, come un messaggio privato o una chiamata telefonica. Il risultato è stato la creazione di un linguaggio fatto di sfumature spesso
molto sofisticate e di allusioni a volte travolgenti. Avete mai sperimentato
una carezza virtuale? È dolcissima. È quando tu pubblichi l’immagine di un
fiore e subito dopo l’altra persona, memore di uno scambio magnifico la sera
prima, pubblica un articolo in qualche modo collegato. È una sensazione che ti
penetra alla radice e ti trasforma, ti tocca dentro in luoghi dove si
pensa che la realtà virtuale non possa arrivare. E invece vi giunge in tutto il
suo luccichio surreale, avvolgente e tangibile.
Una conseguenza di
questo rapporto per me è stata la scrittura di versi in rima. Poesie che ho chiamato
canti in quanto pensate per celebrare questo amore e ringraziare la persona
amata di un suo dono inaspettato e impetuoso. Qui e qui i link ai due canti inaugurali. Questo è uno
degli elementi veri e sostanziali di questa storia, perché ha costituito uno
dei momenti più belli di tutta la mia vita. E non tanto lo scrivere, ma
scrivere d’amore sapendo che l’amato avrebbe letto, sapendo che dall’altra parte
in un altro schermo un’altra persona avrebbe controllato questo blog per
leggere il mio canto. Come io poi avrei letto le sue reazioni e risposte e
trovato in esse stimoli per nuovi canti. Un dialogo preziosissimo, che nessuno ci può
togliere. Un dialogo che mi ha aperto le porte anche alla poesia erotica (qui
un esempio), che non avevo mai sperimentato e che ho trovato liberatoria e
divertente, oltre che ricolma di quel desiderio per l’amato che sfortunatamente
non si è mai tradotto in incontro ‘reale’.
Purtroppo questo
splendore non è durato a lungo, purtroppo è stato devastato dall’invidia, dalla
molestia e dalla violenza del terzo incomodo. Eva Illouz, nel suo importante
studio sull’amore, Why Love Hurts – A Sociological
Explanation, presenta una prospettiva inusuale, e analizza l’amore eterosessuale
nel suo contesto sociale mettendo in discussione l’assunto secondo il quale le
sofferenze in amore si possano analizzare solo a livello psicologico perché circoscritte
alla sfera individuale. L’amore, secondo Illouz, è “plasmato dalle relazioni e
istituzioni sociali e circola in un mercato di attori diseguali” (Illouz, 2012:
risvolto di copertina, traduzione mia). L’amore non ha a che fare ‘solo’ con i
sentimenti, ma anche con i rapporti sociali e rappresenta “più di un ideale
culturale; è una base fondante del sé” (Illouz, 2012: 247, traduzione mia). Anche
online, l’amore può essere un legame fortissimo e profondo e può essere
interrotto, come avviene nella realtà reale. Che tipo di società, quali
istituzioni hanno portato alla messa in crisi di un rapporto che viveva di luce
propria? In questo caso, come già detto, l’invidia e l’incapacità del terzo
incomodo di farsi da parte e accettare il mio no fermo e deciso già a fine
gennaio. Questa incapacità, assieme al fatto che il rapporto veniva vissuto
attraverso canali pubblici e non privati, seppur semisconosciuti ai più, ha
dato vita ad una dinamica a tre fatta di soprusi, ricatti e molestie che hanno
anche valicato i confini di internet. La mia scrittura ne ha risentito in modo
grave, la magia si è persa e la vena creativa è per ora quasi totalmente ferma. Ci sono poi sicuramente altre ragioni di diverso tipo che hanno portato alla crisi del rapporto, ragioni forse di tipo economico, lavorativo e così via. L'elemento psicologico, in questo senso, è pertinente solo fino ad un certo punto.
Whoopi Goldberg in Jumpin' Jack Flash. |
In un
primo momento, io e l'amato abbiamo provato a continuare, ma le continue pressioni del terzo
incomodo, sempre più incalzanti, hanno sbriciolato il rapporto. A questo punto
e non prima, il contatto diretto è divenuto fondamentale e avrebbe
probabilmente risolto quasi del tutto la situazione. Ciò non è avvenuto e il
silenzio sui social da parte mia si è fatto più costante, con lo stress che
a volte ha raggiunto livelli insopportabili e la fiducia fra me e l’amato che deve essere ricostruita
ogni giorno. Niente è più come prima e non si può far finta che nulla sia
accaduto. E gli altri? Le persone che hanno intercettato una parte della
storia? Una mia amica mi ha aiutato, ascoltando ogni tanto le mie sofferenze, facendomi uscire e distraendomi un po'. Altri, soprattutto gli amici in comune a tutti e tre, sono semplicemente restati a guardare, minimizzando la cosa se
interpellati. Questo è un altro aspetto che fa riflettere, perché se seguo online un’amica
che parla di molestie che poi riguardano una persona che conosco,
il minimo che mi sento di fare è di contattarla e di chiederle cos’è che non
va. Poi posso anche crederle o meno, posso anche dirle la mia, ma il contatto e
l’ascolto sono il primo passo e questo non è avvenuto. Paradossalmente, queste
persone, e l’ho già detto altrove, hanno criticato l’assenza di contatto
diretto da parte dell’amato reiterando loro stessi questa assenza. E questo
lo pone al di sopra degli altri, perché se dobbiamo accettare questa regola,
egli è insuperabile nel gestire la comunicazione, soprattutto nei miei
riguardi. Ma da marzo, soprattutto verso la fine, tutto è cambiato.
Possiamo parlare di
cyberstalking nel caso del terzo incomodo? Se prendiamo in esame le condizioni
in cui la molestia e violenza psicologica sono avvenute, sì. Poiché vista
dall’esterno, è sembrata e sembra forse un gioco fra tre persone che citano libri,
canzoni e scrivono canti, ma vista mettendo in fila i vari scambi (cosa
complessissima da fare) che risalgono a fine novembre 2015 e soprattutto tenendo
presente la regola dell’assenza del contatto diretto, sì, possiamo parlare di
cyberstalking. La qual cosa non prevede però misure legali, a meno che non si
provi a spiegare tutte le varie sfumature e collegamenti a un qualche pubblico
ufficiale, il che è praticamente impossibile. Questo perché il terzo incomodo
ha sempre dato per scontato che io andassi a controllare le sue pagine sui
social per non incorrere in malintesi con l’amato e questo aspetto è stato
da lui sfruttato per impostare la molestia. Quindi lo ripeto, il problema non è il
rapporto fra me e l’amato o l’assenza di chiamata, il problema è che all’interno
del nostro rapporto si sono verificate molestie da parte del terzo incomodo. È come
dire, se uno ti dà fastidio per telefono, smetti di usare il cellulare. Ecco, non si può
porre la questione in questi termini, altrimenti si ricade nel solito
stereotipo della tipa che si va a cercare i guai da sola. È uscita la sera,
non doveva farlo. Indossava la minigonna, è colpa sua. Io non ho nessuna colpa
se non quella di voler interagire con l’amato, se vogliamo chiamarla colpa
allora sono colpevole di questo. Niente altro.
Nel 2001 Louise Ellison and Yaman Akdeniz hanno
analizzato le inadeguatezze del sistema legale inglese per quanto concerne le
molestie online nel loro saggio, “Cyber-stalking: the Regulation of Harassment
on the Internet”, “il fenomeno del cyberstalking e molestia online sembra essere il fulcro del panico morale relativo a internet” (Ellison e Akdeniz, 2001: 1, traduzione mia). E a quindici anni di distanza, in Italia, ancora dobbiamo
capire come regolamentare le interazioni online e ci troviamo ancora a lottare
contro un sessismo di base e un tipo di aggressività contro le donne e non solo
(c’è tantissimo da dire su questo e magari ci tornerò), che preclude la libertà
d’espressione e movimento nel cyberspazio. I social hanno cambiato radicalmente
il nostro modo di relazionarci, ma non hanno dissolto certe pratiche violente,
anzi le hanno rese più complesse e difficili da tracciare. Sullo stalking in
genere rimando ad un articolo del blog Abbatto i muri, molto interessante,
“L’ambiguo stalker è quello che ti soffoca con le sue ‘gentilezze’” dove si sottolinea come
ci si illuda di poter ragionare con una persona che ci molesta, perché si pensa
possa rispettare il nostro volere. Ma è tutto inutile, queste persone viaggiano
su altri binari e il fatto che il terzo incomodo non abbia mai chiesto scusa di
quello che ha fatto e non abbia mai mostrato neanche un milligrammo della
sensibilità dell’amato, è un’ulteriore riprova del fatto che l’unica cosa da
fare è allontanarlo, bloccarlo sui social e lasciarlo perdere. Così ho fatto lo scorso 9 aprile.
Il problema è che ora si è infiltrato nei canali dell’amato facendo notevoli
pressioni su di lui, continuando a molestarmi e inquinando sempre di più il
nostro rapporto.
Silence di Bo Wang che ha ritratto la nonna morente. |
In tutta questa vicenda c’è
anche un altro elemento che mi riguarda e che vorrei sottolineare per delineare
in parte il contesto in cui ho vissuto questa esperienza. Si tratta del lavoro di
cura. Per inciso (e qui mi rivolgo a chi sa, come l'amato), il termine
cura appare in un articolo apparso due giorni fa sulle pagine dell’amato,
sospetto provenga però dal terzo incomodo, non ho letto l’articolo, ormai
quello che ritengo possa essere riconducibile al terzo incomodo non lo leggo o
smetto di leggerlo. Questo mio discorso sulla cura, quindi, non ha nulla a che
fare con quell’articolo, questo per far capire come il sistema di comunicazione
fra di noi sia ormai tossico e quasi impossibile da portare avanti in questi termini. Secondo
Joan Tronto, il lavoro di cura dovrebbe essere messo al centro della nostra
società, in quanto “la cura ci aiuta a ripensare gli esseri umani quali esseri
interdipendenti” (Tronto, 2013: 25). La retorica secondo la quale siamo tutti
uguali non tiene conto di questo elemento sostanziale. L’individualismo sfrenato
che ci caratterizza oggi poggia su questa falla, che si rivela in tutta la sua
forza nel momento in cui c’è l’insorgere di una malattia in un nostro amico o
amica o in qualcuno che ci è vicino. La malattia è un tabù perché ci avvicina a
quel senso di vulnerabilità che al suo estremo ha un altro tabù, la morte.
La mia vita è stata
plasmata dal lavoro di cura sin dal 2002, quando mia madre si è ammalata ed è
divenuta invalida. Qui un canto al riguardo. Poi, negli ultimi tre anni, anche
mio padre si è ammalato e, in questo caso, l’esperienza è stata devastante perché,
al contrario di mia madre che si è stabilizzata quasi subito, con mio padre
quasi ogni settimana c’è stato un problema da risolvere, gli infermieri da
chiamare e il dottore da consultare. E via file in farmacia, telefonate,
ambulanze ecc.. Durante questa esperienza poche persone mi sono state vicino e
il mondo di fuori ha iniziato ad erodersi, con una storia importante che è
finita, progetti di lavoro andati male, tante amicizie che si sono allontanate
e il peso inesorabile del lavoro di cura da gestire quasi esclusivamente da
sola sia emozionalmente che praticamente. Il 3 novembre del 2015 mio padre è
deceduto per un grave problema respiratorio e mi sono sentita totalmente
annullata, come se la fatica fatta per prendermi cura di lui non fosse servita
a niente. Qui il mio canto che ne parla. Tutto questo mi ha isolato e reso
estremamente fragile, ma anche molto lucida e consapevole del fatto che l’interdipendenza
può essere un valore e che il rispetto e l’ascolto sono delle priorità in tutti
i rapporti. Anche per questo mi sono imbarcata in questa storia e mi sono
abbeverata avidamente del suo potere rigenerante senza indugio e senza vergogna
per quello che gli altri e le altre potessero pensare e/o dire. È stato un incredibile
toccasana che mi ha rimesso in carreggiata, mi ha ridato fiducia in me stessa e mi
ha fatto sentire veramente viva. Poi però da marzo la situazione è degenerata e con l’amato
non siamo riusciti a sbloccarla per ritrovarci. Certo nei momenti di esasperazione,
soprattutto per via delle molestie, ho perso il controllo e anche l’amato ha
ceduto a menzogne pesanti. Ed ora io non sono più in carreggiata come prima. Riusciremo a chiarirci io e l’amato? Ci saranno
altre possibilità? Non lo so. Per ora la mia priorità è sbarazzarmi delle
molestie, far sì che cessino e se questo significa smettere di leggere le
pagine dell’amato con la frequenza che utilizzavo prima, per un po’ farò
questo. Se mai optasse per il contatto diretto, penso molte cose potrebbero
cambiare in meglio, ma per ora tutto è bloccato. Qui il mio canto più recente
al riguardo.
Ho anche deciso di
rielaborare la molestia e violenza psicologica tramite la scrittura e il
disegno e questa riflessione ne è un esempio. Lo farò in questo blog, in
altri miei blog e, se riuscirò, in altri luoghi, per ritrovare un equilibrio
perduto, per risanare almeno in parte alcune delle ferite che mi porto dietro. Il
materiale accumulato su questa vicenda in questo blog verrà ora riorganizzato secondo le
seguenti tag e inoltre inserirò dei titoli per le poesie o canti:
Incontro (poesie)
Incontro (messaggi)
Incontro (immagini)
Incontro (vignette)
Incontro (vignette)
Incontro (citazioni)
Incontro (video)
Incontro (racconto)
Quest’ultima rappresenta
il tentativo di raccontare la storia con un racconto vero e proprio, ma non ha
avuto vita lunga ed è terminata prima di entrare nel merito della storia
stessa.
MATERIALE CITATO
Vanni Codeluppi, “Tempo”,
doppiozero.com, 9 aprile 2016 http://www.doppiozero.com/rubriche/1919/201603/tempo (consultato il 17 aprile 2016).
www.dizionari.corriere.it (consultato
il 14 aprile 2016).
Louise Ellison e Yaman Akdeniz, “Cyber-stalking: the Regulation of
Harassment on the Internet”, http://www.cyber-rights.org/documents/stalking_article.pdf
(consultato il 16 aprile 2016).
laglasnost, “L’ambiguo stalker è quello che ti soffoca
con le sue ‘gentilezze’”, Abbatto i muri,
8 dicembre 2015, https://abbattoimuri.wordpress.com/2015/12/08/lambiguo-stalker-e-quello-che-ti-soffoca-con-le-sue-gentilezze/ (consultato
il 17 aprile 2016).
Donna
Haraway, “A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in
the Late Twentieth Century”, in Simians,
Cyborgs, and Women – The Reinvention of Nature (London: Free Association
Books, 1991), pp. 149-181.
Catherine
Hayles, How We Became Posthuman – Virtual
Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics (Chicago: Chicago
University Press, 1999).
Eva Illouz,
Why Love Hurts – A Sociological
Explanation (Cambridge: Polity Press, 2012).
Henry
Jenkins, Convergence Culture – Where Old
and New Media Collide (New York: New York University Press, 2006).
www.treccani.it/vocabolario/
(consultato il 14 aprile 2016).
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