“Is she fact or fiction?” ripete Angela Carter mentre ci presenta il suo personaggio, Fevvers, una donnona trapezista che lavora in un circo e che ha un bel paio di ali. Per tutto il romanzo, Nights at the Circus (1984), non si capisce se queste ali siano vere oppure no. Una sensazione simile si ha leggendo la prosa poetica arrabbiata di Babsi Jones nel suo quasiromanzo, Sappiano le mie parole di sangue (2007), dove lo stile del reportage viene fatto esplodere da quello del romanzo che pure, a sua volta, viene scardinato. Non è finzione quella narrata da Jones, ma è cronaca filtrata attraverso una scrittura complessa, sporca, piena di rabbia e di intuizioni. Il rimando a Carter non è limitato a questa lieve e forse distante risonanza, bensì si ricollega alla vocazione di entrambe di ritrarre e creare personaggi, di solito femminili, fuori dal comune, reietti, outcasts, che vivono ai margini della società. Fevvers è un fenomeno da baraccone così come le due arzille gemelle ultrasettantenni, Dora e Nora Chance, che in Wise Children (1991), ripercorrono la loro vita di ballerine di varietà attraverso i ricordi di Dora. Le donne di Sappiano le mie parole di sangue sono anch’esse fuori dal mondo, un po’ perché rintanate in una squallida stanza del condominio Yu Prog di Mitrovica, un po’ perché stravolte e sconquassate dalla guerra. Le loro sono identità liminali, bordeline, fra essere e non essere (tanto per citare un altro protagonista del libro, Amleto). In questo loro squilibrio rimandano all’abietto teorizzato da Julia Kristeva, ossia quello stadio/stato che porta “verso il luogo dove il significato collassa” (Kristeva,1997: 230). Jones stessa sottolinea questo aspetto: "voglio scrivere di quel che non si scrive, di quel che raramente si può dire: i mutilati, i paria, gli esclusi, i caduti" (Jones in intervista di Genna, 2007).
La protagonista di Sappiano le mie parole di sangue è una giornalista che porta lo stesso nome dell’autrice, e questo comporta un ulteriore sbandamento da parte del lettore. Il luogo è principalmente Mitrovica, dove Babsi Jones resta bloccata per sette giornate, i sette capitoli del libro, a loro volta ripartiti in sottosezioni. Il tempo non è né lineare, né ciclico, quanto piuttosto rizomatico, si passa da quello che l’autrice definisce ‘tempo reale’ al 1300 al 2001 e così via. Amleto aiuta la protagonista nel suo percorso fitto di dubbi (sulla scrittura, sulla guerra, sulla Serbia, sulle donne che la circondano), Amleto è come un angelo custode incupito e stanco, un’ombra sempre presente attraverso i costanti riferimenti alla tragedia shakespeariana e l’Amletario finale.
In questa riflessione ‘a puntate’ intendo parlare del lavoro di Babsi Jones facendo riferimento a due aspetti: la decostruzione dello stile epistolare e la messa in discussione della scrittura come mezzo comunicativo. Questi due aspetti, che si riallacciano alla definizione che Jones dà della sua opera, presentandola come quasiromanzo, mi porteranno a parlare del suo lavoro all’interno di quella che Wu Ming
Materiale citato:
- Giuseppe Genna, "Babsi Jones su Vanity Fair: 'Ho scritto il sangue'", Carmilla, 3 novembre 2007 (dall'intervista pubblicata su Vanity Fair dell'11 ottobre 2007).
- Julia Kristeva, Pouvoirs de l’horreur: essai sur l’abjection (Parigi: Seuil, 1980). Versione inglese, “Powers of Horror”, in The Kristeva Reader, a cura di Kelly Oliver (New York: Columbia UP, 1997), pp. 229-263.
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